II. Per Francesco De Francesco

Di Franco Vaccari

Federico Zeri diceva che in nessun paese, come in Italia, c’è una così grande quantità di persone dotate di talenti molteplici che, non trovando modo di venire espressi, finiscono per restare allo stato di latenza.Si potrebbe pensare che queste capacità arricchiscano chi ne è dotato; spesso, invece, finiscono per amareggiarlo suscitando rimarsi e rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato. Ci sono però quelli che nonostante l’indifferenza o l’ostilità dell’ambiente, invece di darsi per vinti, si mantengono fedeli alle loro vocazioni e non lasciano che si spenga il colloqui con le voci che li possiedono. Gli altri – quelli che si arrendono – arrivano a convincersi che queste voci sono rumori di fondo, voci parassite che, affiorando, portano confusione, disturbo e illusioni; ma chi resiste avverte in loro un tono di verità che deve essere testimoniato a tutti i costi.Questo - e in modo emblematico – è il caso di Francesco De Francesco; di professione cardiologo, ma come tanti altri medici, da Cecov a Célin, da Tobino a Burri, posseduto anche lui dal demone dell’arte e, in particolare, da quello della pittura.La sua produzione è notevole sia per il numero delle opere, sia per la quantità di tecniche adottate e padroneggiate da grande professionista: olio, acquaforte, puntasecca, litografia, maniera nera, disegno… Il tutto portato avanti con sorprendente coerenza e con una continua ansia di ricerca.Nonostante l’isolamento in cui si è trovato ad agire la sua opera ha una consonanza di fondo con ricerche di punta di questi anni, soprattutto con quella dei così detti “anacronisti”, allo stesso tempo, si colloca all’interno della tradizione di quell’isola-continente che è la Sicilia, sua terra d’origine.Questo lo si può affermare sia osservando, la resa minuziosa dei particolari, sia per il repertorio iconografico dove i dati realistici si mescolano alle reminiscenze del mondo classico. Sarà compito di altri indagare sugli aspetti tecnici dell’opera di De Francesco, a me interessa l’emergere in essa dei miti della classicità non come forme svuotate di senso, ma come forze ancora vive e operanti nella quotidianità. Questo aspetto prima di essere l’espressione di una precisa individualità è un dato antropologico caratterizzante una cultura. Osservando i quadri di De Francesco si capisce che in Sicilia gli Dei sono ancora di casa. In quale altro paese è del tutto naturale scorgere in una fuga d’amore durante una festa di paese la ripetizione del Ratto di Proserpina.  Un episodioche altrove potrebbe essere liquidato con uno squallido fatto di cronaca qui rivela una dimensione mitica che lo riscatta dal limbo del patologico e del delittuoso. Di “anacronismo” nel lavoro di De Francesco c’è questa fiducia in immagini che hanno radici lontane, proprio quando gli altri artisti praticano l’insignificanza, mirano al nulla producendo immagini svuotate di immaginario. Ma anche in questo bisogna vedervi un sintomo di qualcosa di collettivo piuttosto che la manifestazione di una sensibilità puramente personale. Dice Hillman in Saggio su Pan : “Dietro e dentro tutta la cultura greca – nell’arte, nel pensiero e nell’azione – c’è il suo sfondo mitico policentrico. Ma la Grecia alla quale ci volgiamo non è letterale; essa comprende tutti i periodi e tutte le località, dall’Asia minore alla Sicilia. Questa Grecia rimanda ad una regione psichica. La Grecia (la Sicilia) permane come un paesaggio interiore piuttosto che come un paesaggio geografico, come la metafora del regno immaginale che ospita gli archetipi sotto forma di Dei. Noi usciamo dal pensiero temporale e dalla storicità, e muoviamo verso una regione immaginale, dove gli Dei sono e non quando essi furono o saranno.”