V. Francesco De Francesco DIACRONIE. Un dialogo dipinto intorno alla Pittura.
di Bruno Talpo
Dopo la Mostra di Francesco De Francesco La grande madre e le rigorose e persuasive letture critiche a Catalogo, risulta difficile aggiungervi parole e interpretazioni “nuove” ancorché nuove siano in prevalenza le opere della mostra “diacronie”, come l’ha denominata l’artista, destinate ad essere esposte in un luogo culturale di grande suggestione. Ma d’altra parte Francesco De Francesco è aduso già all’interno delle proprie opere a praticare una contaminazione della sua pittura mediante l’estrapolazione tel-quel di elementi tratti dalla Storia dell’Arte per essere restituiti mediante la memoria al palcoscenico della vita. Ed è in questo transfert che si attua l’inveramento dell’opera d’arte citata, o di un suo frammento, sottratto dal contesto storico per essere reinserito nel flusso dei referenti autobiografici. Un contributo assai rilevante al superamento di una chiave analitica che non sempre apre la molteplicità dei significati oscuri del profondo, venne offerto da Emilio Isgrò, calato da anni in superbe e concrete cancellazioni testuali letterarie favorenti nuove visualità. Isgrò ci invita ad andare oltre la descrizione perfettamente riconoscibile e nitidamente messa a fuoco delle immagini biografico-testimoniali. In esse, precisa Isgrò, “tutto sembra vero, niente lo è”. Esercizio della memoria in De Francesco si nutre dell’immaginario e del fantastico facendo leva sulla capacità innata di rappresentare pittoricamente con obbiettività a volte di natura fotografica e filmica, figure e ambientazioni illusionistiche, quasi magrittiane. Vi è in più, o in meno, rispetto al maestro belga, ma il confronto non è indispensabile, un particolare rigore obbiettivante. Ma occorrerà richiamare Magritte se non altro quando afferma che l’immagine di un oggetto non deve essere confusa con l’oggetto reale e tangibile. Per De Francesco, come per Calderon de la Barca, “la vita è sogno”. E aggiungerei: “il sogno è vita”. Affiora dalle zone dell’inconscio, ma con grande consapevolezza e lucidità, un repertorio narrativo assai coinvolgente di rapporti di reciprocità tra l’arte e la vita, un gioco di specchi nel quale le numerose citazioni di opere d’arte “classiche” assumono un processo di contaminazione e ibridazione iconica con la realtà autobiografica dell’autore, accomunate dalla memoria e relative allo spazio-tempo. L’artista De Francesco rimanda alla rievocazione di momenti irripetibili del proprio vissuto, a desideri del profondo inespressi e forse inesprimibili, ma che assumono, nella trasposizione pittorica, una grande dignità, come archetipi e creature evocatrici di un sottomondo “popolare” intensamente umano e veridico. Vi è in queste concitate e pur altamente concettualizzate evocazioni, il senso del mistero dell’esistenza, la sete di conoscenza, l’appagamento del gusto orientato verso la bellezza, la malia e la seduzione esercitate dall’arte, suscitatrice di sensazioni sublimi. De Francesco interpreta magistralmente le zone del mito. Nell’opera il Ratto di Proserpina adottò le forme del racconto popolare, ma è la luce a divenire protagonista dell’evento, il rapimento, descritto in primo piano all’interno di un mercatino particolarmente affollato. Si tratta di realtà o di una rievocazione, una leggenda popolare appunto narrata dal cantastorie e mimata teatralmente da un Pupo siciliano? Veniamo ora all’analisi di alcuni dipinti. In “Ciceroniano sei!” De Francesco pratica un travestimento di natura teatrale assumendo le sembianze del San Gerolamo nello Studio di Antonello da Messina, dipinto a Venezia nel 1475-6. Nella tela Il dolore del Circo, 1994, è presente la Maddalena disperata (nella Pietà di S. Maria della Vita a Bologna”, 1435) nel “compianto” di Niccolò di Bari (detto dell’Arca per aver completato l’arca di San Domenico a Bologna). Opportunamente Basilio Reale riconosce nell’opera di De Francesco la presenza inquietante dell’inconscio collettivo nel quale si riflette l’inquietudine del nostro secolo decadente sul quale si agitano gli spettri di un tragico destino universale. Illusionista “anacronistico” del reale De Francesco demitizza la “produzione di immagini svuotate di immaginario”. Questo artista-medico, come Alberto Burri, lancia nel panorama tardo-moderno che si è lungamente dedicato a “rendere visibile l’invisibile”, secondo la nota affermazione di Paul Klee, una sfida volta a recuperare la capacità immaginativa del passato, i suoi valori, le memorie percettive. Sogni senza tempo, le immagini archetipe di De Francesco suggeriscono associazioni liberate dal peso della storia. Sono memorie prodotte come in una visione e collocate fuori dal tempo. Ma, per entrare nel merito, occorre evidenziare come il linguaggio pittorico sia virtuosistico e adeguato a una tecnica non affatto superficiale, in bilico tra i maestri “Primitivi” del Quattrocento e i pittori Naif. Condivido il giudizio di Enrico De Pascale allorché individua in De Francesco “uno stile miracolosamente lucido e preciso (per li rami fiammingo o addirittura antonelliano)”. Vi sono di mirabile e di persuasiva nella sua pittura la perfezione del disegno e l’accuratezza con la quale De Francesco dosa gli effetti di straniamento della realtà nella direzione di significati altri di natura surreale e visionaria. Non a caso tra le opere più “alte” di De Francesco figura una copiosa produzione grafica che si traduce in edizioni di cartelle litografiche e calcografiche che meriterebbero un ulteriore approfondimento critico. Si tratta di un cielo popolato nel disegno sublime dalle anime di William Blake, di Heinrich Fussli, John Millais, Odilon Redon… E in questo itinerario del fantastico può rientrare anche il fiabesco di Collodi tradotto in illustrazioni intese come nel saper guardare il mondo attraverso il sorriso dell’ironia. Vi è inoltre nelle opere di De Francesco la notazione del silenzio, come sopra accennai all’immobilità. Sono requisiti delle corsie d’ospedale, delle veglie al capezzale del paziente terminale, lo stupore di fronte all’evento miracoloso, al meraviglioso che si frappone alla coscienza della caducità delle cose terrene: le vanitas. Il rigore analitico e la chiarezza intellettiva inducono lo spettatore a accettare il significato epistematico della fine dell’uomo. L’atmosfera che si respira in queste scene di vita fantasmatica e la sospensione in uno spazio irreale, pur nell’icasticità della rappresentazione satura di pletorici rimandi alla Storia dell’Arte, intrecciata con l’introspezione di sé e della propria vicenda umana, attingendo al sogno, all’illusione chimerica e al desiderio. La sua rivelazione non appartiene alla realtà quotidiana ma essa interpreta alla luce della coscienza immateriale intesa per lo più come trascendente, ma interpretata e traslata dall’arte. Alla realtà superiore appartiene la quiete mistica nella quale si placa l’ansia scientifica di conoscenza, l’arroganza del sapere. Come si è anticipato De Francesco non esprime la metafisica del reale bensì coniuga nuove dimensioni del fantastico. Ed è questa posizione dialettica ed ermetica, cultura figurale del contrasto (come ricerca della pietra filosofale) che lo rende eccentrico rispetto alle più diffuse tendenze oggettive e tecnologiche postmoderne. Le sue opere sono infine aperte a una pluralità di significati come è simbolizzato nel dipinto che mostra una figura femminile che passa attraverso infinite porte. Esse sono risultato significante della giustapposizione di indizi suggestivi che alimentano l’indagine di zone oscure del profondo e del mistero avendo come risultato di produrre icone del visibile per guidare il visitatore nel sopramondo dell’invisibile. In questo contesto di elevazione cultuale del pensiero “forte” della cultura classica, ma nutrita dalle emozioni suscitate dalle esperienze di modernità ( comprese l’angoscia e la solitudine nordiche) desunte dal fluire dell’esistenza, e coerente la scelta di un tempio come luogo deputato al transumano e alle iconografie del non profano. L’arte ermeneutica di De Francesco è orientata, tramite la pittura, nel senso di una gnosi che rivelando nell’umo il divino, lo identifica con esso. L’Eros, sostanza psicanalitica, leggibile in alcune opere di De Francesco, si sostanzia in attributi di nudità corporale , di amplessi furtivi e sorpresi, come illustrazioni di desideri, come strumento di bellezza del creato piuttosto che elementi di vera seduzione. Le metafore e le simbologie evidenziano il rapporto drammatico dell’artista con la realtà pur se attinente al sublime e talvolta al subliminale, essa si traduce nell’affabulazione e nella prassi dell’ars combinatoria. Si potrà lungamente o brevemente indagare il processo di materializzazione del pensiero come in un interminabile “ brain storming ” esso rivelerà nelle opere la sua ipnotica malia narrativa consentendo di scoprire sempre nuovi particolari, nessi, allusioni come nel teatro dell’assurdo di Samuel Beckett. L’operazione di rispecchiamento della vita comporta un caleidoscopio di azioni congelate in una mimesi e mimica che denunciano il non senso dell’esistenza, il “malaise” esistenziale che è alla base della cultura moderna. Le creature amate alle quali l’artista dà vita di apparenza, come metamorfosi del (proprio) quotidiano, sono metafore visuali e letterarie di appartenenza fantastica e metaoggettiva. Questa esperienza artistica, tutt’altro che solipsistica, può rimandare a Paul Delvaux, alla nuova oggettività tedesca ad Alfred Kubin, fautore di un mondo allucinante, sotterraneo e fantastico e ad altri movimenti Psicologisti. Come anticipai all’inizio la Mostra di Francesco De Francesco ha per titolo “ermetico” diacronie, volendo significare una successione temporale di eventi per lo più di natura linguistica e cognitiva (noetica). Mentre in passato l’ambito nel quale si esprimevano la passione iconica e spesso le tautologie era principalmente quello dell’arte piuttosto che della memoria e del sogno, nelle opere recenti l’artista attinge alla contemporaneità e ai suoi riti dando vita a un grande teatro dell’immaginario. L’estrapolazione letteraria non è affatto descrittiva ma gioco di presenze e di ombre che interpretano e suggeriscono nuove evocazioni narrative. Nell’opera Francesco e Ulisse, 1985, avviene l’incontro tra il mistico, San Francesco, e la conoscenza rappresentata da Ulisse, sullo sfondo il profilo di Assisi intesa come Atene spirituale. In Improvviso, 1985, i protagonisti sono un uomo raffigurato in controluce incorniciato in una porta, un cavallo che irrompe in un ambiente prospettico occupato alla sinistra da una scala da film americano dalla quale scende una donna del sud in sottoveste esprimente stupore. In Rossini e la cioccolata, 1986, Rossini viene incoronato con l’alloro da una donna posta dietro una veneziana mentre al centro una figura femminile in primo piano è illuminata da un fascio di luce da palcoscenico e sullo sfondo un cavallo fa la sua comparsa su una scalinata. Ratto di Proserpina consiste in una mitica rievocazione svolta con dovizia di particolari dell’evento. L’entrata, 1988, ripropone una situazione assai sorprendente. In Serenata, 1992, notturno con luna piena e cielo nuvoloso, prefigura l’anamorfosi della morte e il dialogo tra la statua di Santa Grata, particolare dell’omonima chiesa e un chitarrista mentre da una finestra il pittore si autorappresenta riflesso nel vetro: alla parete figura il quadro medesimo. Ancor più pregnante Il Teatro dell’Immagine, 1992, raffigura Emily Dikinson in penombra nell’atto di porgere un foglio con lo scritto: “è frugale il carro che trasporta l’animo umano”. Nel contesto figurano anche due giovani donne dialoganti con un giocatore di carte dei tarocchi, nel nostro caso la Temperanza. Nel Gran Teatro dei Burattini l’ombra è attiva come nel teatro giapponese, vi figura anche l’amico artista Alfredo Pizzo Greco nella veste di Mangiafuoco. Omaggio a Bonomini, 1999, Una figura di nudo femminile gioca a mosca cieca con la morte di grigio vestita posta in interno dove dalla finestra si vede il mare. La visita, 2001, artista e modella sono posti davanti alla finestra dalla quale si intravvedono il mare e le Eolie, nonché Socrate al centro come statua mitica. Orfeo e Euridice, 2002, in interno piastrellato e prospettico risaltano due Erme, figure impietrite, immagini del Mito. Venti di guerra, 2003, raffigura un’atmosfera di sospensione con un musicista jazz (sassofonista), un’elegante figura femminile in blu raffigurata di spalle e reggente una maschera che ride, sullo sfondo la statua di Apollo e sfrecciante nel cielo un minaccioso aeroplano da guerra originata da un vignettistico Paperon de’ Paperoni appoggiato ad una pila di monete d’oro. Vi sussiste la massima contaminazione del reale e del mitico e ricorso all’ibridazione stilistica dei generi. Ombre misteriose, 2003, il dipinto presenta la situazione “misteriosa” di tre statue, la prima ben stabile sul piedistallo, la seconda e la terza lievitanti mentre la propria ombra risulta come fossero appoggiate alla base. Sullo sfondo un trasparente paesaggio marino (le Eolie). In L’Angelo una figura alata sostiene il pittore in atteggiamento meditativo.