VI. Come fu che un apprendista ‘maniante’ divenne pintore
di Nino Sottile Zumbo
Le piccole imposte serrate da lungi resistono all’apertura, il corto filo elettrico intrecciato e a vista, appuntato al limitare della paretina di sinistra, accanto l’uscio, è reciso dalla lampada.Aguzza l’ingegno per vincere l’oscurità. Si procura un moccolo, ma la luce è fioca e non l’aiuta; provvido, dalla crepatura d’una imposta, a svelare corpi e visi, soccorre il lampo della luna.Siamo nel demo di Barcellona Pozzo di Gotto, terra di Sicilia, laddove i monti Abaceni si congiungono alla coda dei Peloritani, sul lato settentrionale del triangolo scaleno. Nel cuore antico del demo, al Teatrino dei burattini di Via Domenico Scinà.Qui nel mezzanino, tra il piano terreno e il nobile, riposa la famiglia dei burattini da riattare, con i cimieri di traverso, i musi di cartapesta sgualciti, gli scheletri di legno che traspaiono dalle fiammeggianti mantelle, dalle villiche vesti, o da quelle sontuose, damascate di greche, delle damigelle; a poca distanza, i bardati e malconci destrieri dalle zampe ritorte. Tutta una confusione di pose acrobatiche e tragiche; ma non si tratta di morti dolorose, imposte dal moto dei fili, come sulla scena, bensì di una catastrofe inerte, di pose senza gloria.A lui, Francesco detto Ciccio, apprendista ‘maniante’(burattinaio), tocca l’ufficio della deposizione.Questa è la volta del vecchio, sfiancato, sgraziato Ronzinante; il cavaliere dell’ideale, Don Chisciotte, confuso tra realtà e visione, senno e sragione, dopo l’ennesimo contrasto coi giganti del vento e le nuvole, non potrà cavalcarlo.La colpa è stata sua(di Ciccio) e del caso. Scendendo dal poggio ubertoso di Maloto al piano, a causa di un sussulto per un inspiegabile, improvviso arresto dell’asina, mentre seduto sul carro, accanto al conducente, l’armeggiava, rovinò lungo il greppo su una rupe.Depone Ronzinante accanto ai fratelli. Sono burattini infermi, per lo più a causa dell’usura. A suo tempo verrà mastro don Ettore a medicarne le ferite, lui l’assisterà.Per il debutto dell’opera nuova Ciccio effigia (è talentuoso nell’arte del disegno e dei colori, più che in quella del maniante) almeno diciotto fondali per il teatrino, con la storia di Principessa Armida, di come giurò giaculando di vendicare la decollazione ignominiosa del fratello germano Rodomonte (rammenta il maniante che trattasi di giaculatoria di dama) e assediò Rometta, ed era invincibile affatturata in ogni parte, salvo nel basso ventre; e di come Principe Riccardo si finse cadavere in campo, aspettando che lei passasse in rassegna i morti nemici, e di sott’in su le inferse la Durlindana proprio nel basso ventre con fiotto di nero sangue e di morte...Ciccio, seppur giovinetto appena quattordicenne, esorta don Ettore a non dichiarare il numero a dismisura: non dodicimila, non ottomila, non cinquemila, né duemila o mille, meno di una centina sono gli infedeli morti, se contraddetto dal pubblico, rinunzi a insulti ed improperi.Appronta anche i fondali per le vicende di donzella Angelica e il suo maestoso Ippogrifo, bardato d’oro e d’argento, luccicante di borchie, tintinnante di sonagli, crestato come un Re. Al centro di una piccola radura nel bosco di frassini, buono per cacce e singolar tenzone, l’Ippogrifo, col suo ambio maestoso, ventila l’aria d’intorno.L’arciprete dell’Assunta di Pozzo di Gotto, Monsignor Giuseppe De Francesco, prozio di Ciccio ex parte paterna, l’ebbe vinta.Fu nell’autunno, a pochi giorni dall’inizio delle lezioni scolastiche: convinse il nipote, anch’egli di nome Giuseppe - farmacista, noto per le lunghe camminate notturne con gli amici, senza sosta, tra le deserte vie del paese, al chiaro estivo di luna ma anche durante le avverse stagioni - e padre del Nostro, che il giovinetto per apprender l’arte di burattinaio era distolto dagli studi ginnasiali e troppo spesso latitava alla messa del Vespero, e l’officiante restava privo del suo necessario servigio di chierichetto.Il prelato, uomo assai colto, per farsi perdonare, in quegli stessi giorni, in un tiepido meriggio d’ottobre, donò al pronipote il prezioso Don Chisciotte di Miguel Cervantes di Saavedra, illustrato da Gustave Doré, nell’edizione fiorentina di Nerbini del 1932, di grande formato e rilegato in mezza pergamena, con titolo in oro su tassello al dorso.E anche Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, con illustrazioni di Carlo Chiostri - ottanta incise su legno da Adolfo Bongini, e cinque stampate a piena pagina inmezzotinto -, libro raro, di piccolo formato, stampato a Firenze da Bemporad e Figlio nel 1915.Ciccio, ancora una volta in lacrime per l’abbandono forzato dell’ufficio d’apprendista maniante, li riceve e ringrazia solo per dovere il parente, serrando i denti.Sfogliando subito a caso, prima l’uno, poi l’altro, è comunque ammaliato dalle illustrazioni.Così è cominciata la faccenda. Una sera di fine dicembre, quando la Stella polare è al suo sfarzo, divorati entrambi i libri, chiede il permesso all’anziano mastro don Ettore d’accedere al mezzanino.Accosta l’uscio, le imposte sono sempre serrate, la lampada inservibile, stavolta è provvida di luce la Stella polare, ma degli infermi burattini, ad attento sguardo, nessuna traccia.Delusi delle futili corone, dei regni mai regnati, i Re burattini, cristiani e infedeli, avvolti nei superbi panneggi porporini, comandarono - almeno così si racconta - a tutto il loro seguito, di storpi come loro e impediti, un sussulto d’orgoglio.Così, principesse, torreggianti sono le loro acconciature, eleganti i cincinni; duchi altezzosi; cavalieri ansiosi di sguainare la spada, assisi su zoppicanti destrieri con nastri e rosoni disseminati ovunque, dal cavezzone al sottopancia; dame e damigelli di corte dai volti divini; chiassosi famigli conducenti graziosi animali di razza; dandosi manforte l’un l’altro, ma solo tra confedeli, in ordinata fila per due, avanzano lungo lo stanzino, come spinti da un impensabile meccano.Superate faticosamente le scale, guadagnano l’uscio sulla strada, magicamente risanati (è stata forse una Fata?), alla gloriosa conquista di regni non più dipinti sui fondali. Avranno maggior fortuna?Ad un tratto un topolino zampettando attraversa dinanzi a lui il polveroso pavimento in doghe di legno, s’insinua tra alcuni ferri del mestiere che qui ammassati alla rinfusa riposano in attesa di riutilizzo - la pinza, il fil di ferro, i perni, il piccolo martello, le coramelle, il punteruolo, l’intagliatore, i tronchetti di cirmolo e ciliegio, il denso rotolo di cartapesta -, dribbla la scatolina in metallo con la colla garavella e si ripara lesto all’angolo del sottoscala.Non sappiamo se quanto ora descritto l’abbia vissuto o sognato. Ma certo è che da quel giorno, rinunziando per sempre alla primitiva brama d’apprendista, Ciccio s’affida all’arte della pintura e l’affina.Quando, per ingraziarselo, gli regalò i due libri, il prozio prelato gliene rammentò il valore. Che Don Chisciotte, l’ossuto bislungo perdente che vince sempre, spettatore e attore di un universale teatrino di Maese Pedro, fosse metafora di libertà e archetipo letterario d’ogni epoca, il giovinetto lo sapeva bene, l’aveva appreso durante gli spettacoli.Quando fu la volta di Pinocchio, rivelandosi il prete qual era - e i preti la sanno lunga -, tra i pregi insinuò malizie.Nulla di nuovo sotto il sole: suoi prossimi antenati sono gli automi del XVIII secolo, macchine semoventi d’umane sembianze e capaci di rudimentali logiche, come l’“automa scrivente” di Friedrich von Knauss o quello “giocatore di scacchi”, detto “Il Turco” per l’aspetto, costruito da Wolfgang von Kempelen per il diletto di Maria Teresa d’Austria imperatrice.Neanche la primogenitura letteraria di burattino vivente gli spetta. Il testo, v’è prova, appare a puntate, dall’anno 1881 all’anno 1883, col titolo Storia di un burattino, sul “Giornale dei bambini” di Ferdinando Martini; poi, col definitivo titolo Le avventure di Pinocchio - Storia di un burattino, è edito in volume, nello stesso anno 1883, dalla fiorentina Paggi, con illustrazioni di Enrico Mazzanti.Ma François Janet, oscuro libraio parigino, scrive e stampa in proprio a Parigi, quasi un ventennio prima, nel 1862, in poche copie che dona agli amici, un romanzo di formazione, La bambola parlante, che narra d’una piccola Seneca in gonnellina la quale, per educare i piccini, sputa sentenze.Le concordanze col personaggio d’oltralpe, per il prozio, sono irrefutabili.Non vero, medita Ciccio tra sé e sé: Pinocchio è, all’opposto, un anarchico cerca-guai, salvo pentirsene, tutti lo sanno.È lecito elevarlo ad emblema? Così incalza il prozio. Se sì, che medaglia e di che conio - d’oro, d’argento o di bronzo - appendergli al petto?Giuseppe Prezzolini, un professore che di libri ne sa - ammette il prelato tuttavia - comanda che per conoscere l’Italia e gli italiani (solo questo popolo? rimugina Ciccio) bisogna leggere Bertoldo e Bertoldino di Giulio Cesare Croce e Le avventure di Pinocchio; Alberto Savinio, un raffinato musicista-scrittore-pittore, recita che le avventure di quest’ultimo sono “la Bibbia dell’amore”.Avido di vita, curioso e volitivo come ogni fanciullo, pratica da subito il suo libero arbitrio: neonato, s’oppone al padre, ma spetta a Geppetto la patria potestà di governo dei suoi gesti; l’ha creato per sé, il padre, per tirarne i fili a suo piacimento, ma il figliolo è sempre in fuga per la libertà (come i Re burattini e il loro seguito, rammentò il pronipote).Sperimenta un mondo di fantasiosi arabeschi e reali perigli: Mangiafuochi; gendarmi; Lucignoli tentatori; festanti e ignoranti balocchi; meravigliosi e giudiziosi animali, il Grillo parlante, il Colombo, le Api industriose, il Granchio; animali e figuri malvagi e corrotti, il Gatto e la Volpe, la Faina, l’Omino di burro; analfabeti del Quarto Stato.Seppur poche volte, mente per purgarsi dalle colpe e rendersi accetto (come ci comportiamo noi tutti, grandi e piccini, e i preti? medita Ciccio); su di lui, discreta, senza bacchetta magica e nessun prodigio, vigila la Fata e lo conduce a ragione, mentre il padre lo educa ai buoni sentimenti: una pedagogica rivoluzione di ruoli per la rigida, diseguale, borghese società postunitaria del tempo, così andava blaterando la progressista Concettina D’Amico, docente d’italiano e latino alle classi superiori del locale Ginnasio-Liceo “Luigi Valli”, collega del prelato.Felice dictu: per la sua bontà supera l’esame, da cosa di legno vivente è promosso bambino di carne.Il libro è però ambiguo, mugugna ancora il prozio: può leggersi in chiave laica e pedestre, o spirituale, e quest’erranza per Santa Romana Chiesa è fuorviante: peripezie, quelle del burattino,da Edipo novello, orfano di madre (e la Fata Turchina? Non è forse la sua “mammina” putativa, borbotta Ciccio), o di figliol prodigo che, vinto dal suo amore, s’emenda e torna al padre?E poi il libro ha oscurato il suo autore, come se - e il prozio a questo momento, tremante, si segna con la croce - Gesù Cristo figlio oscurasse Dio padre. Sono trascorsi lustri.Ciccio, da giovine, curava le ferite dei burattini; ora, indossato il camice bianco, i mali corporali degli uomini.Ha studiato anatomia, fisiologia, patologia umana, l’arte d’Apelle e Fidia così come si è evoluta nei secoli, non ha mai dismesso pennelli e colori.Nell’anno primo del terzo millennio, in un pallido mattino di febbraio color della tortora,è provvido il caso: a Bergamo bassa, nel soggiorno di casa, alla libreria in legno di castagno, la luce è fioca, fruga nel primo scaffale, tra i poderosi volumi, in cerca d’un catalogo d’opere del Beato Angelico; smosso, gli scivola in mano Le avventure di Pinocchio dono del prozio Giuseppe, ch’era stranamente fuori posto.Lo rilegge d’un fiat quello stesso giorno, decide d’illustrarlo - con semplici matite a punta fine monocrome e raramente colorate -, e lo completerà entro due anni.Ventuno le tavole grafiche: ogni tavola, ricca d’episodi, e a volte con brani trascritti, datata e firmata col segno matematico pi greco, numero reale, irrazionale e trascendente come vuol essere la cifra dell’arte sua; il foglio respira, il tratto è leggero o denso secondo necessità.Nelle tavole gli oggetti simbolici principali - come nella composizione del Cristo deriso del Beato Angelico conservata nel Convento di San Marco a Firenze - sono sospesi nell’aria.Simboli estranei al romanzo, ne arricchiscono il senso.L’artista utilizza macchie di colore per polarizzare l’attenzione sulle figure.Gli animali, soprattutto alcuni alati, sono degni di figurare tra le mirabilia dei miniati bestiari medievali.È un visionario: sceglie un episodio del romanzo - un romanzo che evoca, suggerisce e non descrive - e vede la scena proiettata in rapida sequenza su uno schermo ideale davanti ai suoi occhi.Non cattura le immagini, ne calibra il mot juste, e le traduce, liberamente, sul foglio di carta in forme felici, incisive, memorabili, icastiche.Forzerò le mie parole per inseguire l’essenza delle sue icone, fuggevoli come Pinocchio.Nella tavola prima, assai complessa, archetipi e citazioni: la steatopigica Venere di Savignano (Museo “Pigorini”, Roma) che risale al neolitico, Grande Madre trasfigurata in albero, come le donne di Paul Delvaux. La Venere dalle forme generose appena sbozzate, velata, feconda nel suo ventre Pinocchio, raccolto in posizione fetale ed evidenziato col giallo. Gli è accanto l’angelo della buona novella, di fattura rinascimentale. In aria sospesi, i ferri del falegname, la sega e la pialla; poi v’è il coniglio, emblema di fertilità nelle antiche raffigurazioni; e i tre chiodi della Crocifissione di Cristo che circondano il viso e il capo d’un urlante Pinocchio già uomo (ogni nascita ha un destino di passione e di morte). Non ho detto di mastro Ciliegia nei singolari panni di macellaio.D’altre illustrazioni dirò per cenni, indicando le pertinenti tavole con numeri romani.
- Disegnate al contrario, appaiono figure e ombre; l’illustratore ci ricorda che i personaggi di romanzo son cose salde e che la realtà è sovvertita dalla bugia (il Grillo parlante acconsente).
- La contentezza del burattino - cui il padre, senza che minimamente si noti, ha ricostruito e riappiccicato i piedi bruciati nel braciere - esplode in cinetica frenesia. Le tre pere, magro pasto, hanno la carnale sensualità dell’aureo fotogramma Le violon d’Ingres di Man Ray (Getty Museum, Los Angeles).
- Il barbuto e possente Mangiafoco – che, impietosito per intercessione del buon burattino, grazia dal fuoco lui e Arlecchino - è il ritratto-omaggio all’artista siciliano deceduto Alfredo Pizzo Greco, che creava col fuoco.
- Un importante dettaglio: gli occhiali tondi d’oro e senza vetri del rispettabile Gorilla giudice cui il burattino denunzia Il Gatto e la Volpe che l’hanno frodato dei suoi zecchini. È miope la giustizia e non attrezzata al fine: Pinocchio è arrestato dai due cani mastini gendarmi in quanto parte lesa.
- Una lucciola (simbolo della giustizia giusta) grava nel cranio dell’uomo-Pinocchio; non dico di più: voi che avete letto il libro conoscete già il perché.
- Il Pescatore che, per cibarsene, vuole friggere Pinocchio, mi ricorda i grotteschi personaggi di Giuseppe Arcimboldo.