I. Ombre e farfalle
di Emilio Isgrò
Di Francesco De Francesco posso dire che la sua intrepida pittura- fatta di sogni e di farfalle, ma anche di incubi di piombo – io l’ho assorbita e goduta fin dai primi anni di vita: quando il medico artista (che tale è e rimane) si divertiva a effigiare i compagni di scuola (e io tra questi) pronti a mettersi in fila per avere un suo schizzo, un suo segno.Ed erano fogli – quelli che De Francesco rilasciava generosamente agli amici – densi di forme e di colori mai visti prima, gettati giù con una perizia che, data l’età dell’artefice e del suo pubblico, non esiterei a definire “Mozartiana”.Quel tempo dell’infanzia è ormai finito; ma non è finita, per fortuna, la capacità di stupire che De Francesco riesce a riservarci ancora oggi: con una pittura ormai superbamente adulta, si capisce, e tuttavia non priva di quella innocenza assoluta che l’arte, anche la più sofisticata, non può non avere. Se poi mi si chiede quali sono i suoi mezzi, e quale è il suo mondo, allora mi tocca muovermi in direzioni per me privilegiate, e sostituire una possibile lettura stilistico-formale del suo lavoro (tutt’altro che problematica, vista la qualità) con una indagine biografico-testimoniale che non distrugge la tessitura espressiva dell’opera (fatta per l’appunto di linee e di colori) ma anzi la esalta e la scioglie in materia vibrante, ubriaca.È la vibrazione, penso, della luce del Tindari o di Capo Calavà, quando il temporale invade lo specchio di mare davanti a Spine Sante - a due passi da Milazzo e di fronte alle Isole Eolie – e quasi subito, tra vento e trombe d’aria, in un lampo riemerge il sole, come se niente fosse accaduto. Proprio così: come se nulla fosse accaduto…Le cose accadono, insomma, e accadono furiosamente, e forse torbidamente, e l’artista ne prende atto con il distacco medico. Così come, se è possibile accostare due artisti tra loro diversissimi, l’ex medico Burri prende clinicamente atto che lo squarcio rosso sul sacco è un’ulcera allo stomaco. Per quanto formalmente ineccepibile, voglio dire, la pittura di De Francesco è portatrice di un disagio, ed è il disagio di chi sa fin troppo bene che la propria esperienza del mondo non è esattamente l’esperienza dorata della memoria. E tuttavia la memoria può servire a strutturare credibilmente un discorso che abbia fattezze di realtà e non di utopia.Ed ecco, allora, che queste immagini impeccabilmente dipinte ci rimandano a un mondo perfettamente riconoscibile anche da chi non l’ha mai conosciuto: la chiesa di San Vito, la chiesa del Carmine…E poi i venditori ambulanti e le luci festive di una Sicilia che non c’è più. E i golfi allargati e le spiagge di finissima sabbia. Perché sono queste le immagini che un italiano del Sud si porta dentro anche quando emigra altrove, magari per farne dono alla moglie lombarda, emiliana o tedesca. E naturalmente ai figli che verranno, e ai figli dei figli.Certo, la pittura di De Francesco non è tutta qui. In altri casi si complica, accetta di misurarsi con talune esperienze “visionarie” che il Novecento ha consegnato al Duemila. Commetteremo allora l’errore di parlare di metafisica? Chiameremo inutilmente a testimone il solito Alberto Savinio? O più semplicemente ci godremo, come è giusto, la straordinaria, inedita competizione che una donna in carne ed ossa riesce a ingaggiare con una statua di marmo? E dove sta la vita? Nella statua o nella carne? Il gioco conturbante di ombre che l’artista mette in atto non ci consente di dare una risposta, giacché tutto sembra vero e niente lo è Né i simboli né gli oggetti. Solo la luce che risplende sulla spiaggia di Spine Sante è vera, davanti alle forme immote di Vulcano e di Lipari sullo sfondo. Ed è vera la fantasia mutevole e dilettevole di un pittore visionario che esorcizza i fantasmi con i fantasmi. Ma qui, al cospetto di un tale esorcismo omeopatico, torna a proposito l’immagine del pittore-medico da me evocata all’inizio e quasi automaticamente estesa a Burri: non per ridurre il peso di un artista, né tanto meno per giocare con la sua biografia, ma piuttosto per segnalare, proprio in questo momento, ora e qui, come un eccesso di “professionismo” (e dunque di routine) possa nuocere a quella verità dell’arte alla quale, a suo modo, anche De Francesco è portatore.